Flavio Sangalli pratica e insegna il Karate Wado Ryu da oltre quarant’anni, dove ha raggiunto il grado di cintura nera VII dan. Ha svolto una lunga attività di amministratore delegato e presidente di società cooperative e pubbliche. Attualmente è docente presso l’Università di Milano Bicocca al corso di laurea in Scienze dell’Organizzazione e al Master di Sport Management. Sui temi manageriali ha pubblicato ventiquattro libri. Per Homeless Book è anche il curatore della collana «Storie positive», a cui abbiamo dedicato un'altra intervista sul blog.
Ci sono alcune
differenze fondamentali tra le arti marziali e quelle che invece chiamiamo «discipline di combattimento». La prima di queste è che, nel caso delle
discipline di combattimento, si tratta di attività puramente fisiche, con una
visione più superficiale. La seconda è che nelle discipline di combattimento
tendono a crearsi asimmetrie con l'avversario, proprio perché il fine ultimo
dello scontro è abbattere chi ci sta di fronte. A volte, questo porta ad atti
di violenza fisica pura e semplice, come nel caso di Colleferro.
Il concetto di arte
marziale è ben diverso, anzi, è l’esatto opposto. Un’arte marziale è una
disciplina con dei codici di comportamento e con delle finalità diverse
rispetto alla mera dimensione sportiva o, peggio, all'aggressione fisica. Di
conseguenza, non si può in nessun caso classificare come arte marziale
qualsiasi forma di lotta. Si tratta, sì, di una disciplina fortemente fisica
che implica reazioni di difesa nel combattimento, ma essa è completamente
codificata da un codice di comportamento. I principi di quello del karate si
rifanno generalmente a quelli del Bushido giapponese, il codice cavalleresco
dei Samurai.
Quindi, nella migliore
delle ipotesi, le altre forme di lotta sono mera di attività sportiva. Nella
peggiore, soltanto esercizio di forza bruta. Ed è per questo che non hanno
niente a che fare con le vere arti marziali.
Il wado ryu è una scuola
di karate fondata da Hironori Otsuka e si distingue dagli altri stili della
disciplina già nella propria definizione: «scuola della via della serenità», o «dell’integrazione», «dell’armonia» (da «ryu» che vuol dire scuola, «do» che
vuol dire «via» e il concetto di «wa» che corrisponde invece a «pace, serenità,
armonia, integrazione»). Il «wa», in particolare, è un concetto tipico
dell'antropologia culturale giapponese, tant’è vero che lo si trova nei
principi di management del Toyota Production System.
Di conseguenza, il wado
ryu è una forma di karate codificata come arte marziale e anche una scuola vera
e propria per raggiungere stati di integrazione, di serenità e di armonia con
gli altri. La “via dell'armonia” che dato il titolo al libro è semplicemente la
traduzione in italiano del termine «wado».
Nell’ottica del wado
ryu, l’avversario non è più un nemico da abbattere, ma diventa una persona che
ti aiuta a crescere. Ed è da questo che nascono, ad esempio, la ritualità del
saluto e l’etichetta da rispettare durante gli incontri.
Se abbiamo la visione
del wado ryu come disciplina per lo sviluppo personale e sociale, sicuramente
la pratica di questo stile di karate può essere usata come un supporto di tipo
formativo che vada a integrare i processi scolastici generali. In Giappone,
questo collegamento tra il karate e i processi educativi c’è sempre stato.
Basti pensare al fatto che lì veniva insegnato nelle scuole, o che
l’espressione giapponese «honbu dojo» indica la palestra centrale sia nel wado
ryu che presso la Waseda University di Tokyo.
In generale direi che
chiunque può trarre vantaggi da questa pratica, se svolta correttamente. In
particolare, però, il libro si rivolge ai formatori all’interno delle comunità
o a coloro che abbiano un interesse verso i processi di educazione. Non a caso,
la casa editrice ha incluso «La via dell’armonia» nella collana «Best Practices
in Education», perché il karate wado ryu si può caratterizzare come pratica
formativa complementare nei vari gradi di età, a cominciare da quelli infantili
e giovanili ma anche più avanti.
In più, il libro è stato
utile per approfondire la preparazione degli insegnanti tecnici, che
naturalmente non deve essere solo di natura tecnica ma anche più olistica, più
globale. Questo perché, che si tratti di educazione scolastica, discipline
sportive o altri ambiti, il ruolo del maestro è fondamentale. Un buon maestro,
nell'ideologia giapponese, è qualcuno che vada oltre l’insegnamento della
tecnica e abbracci un approccio più olistico, appunto, valutando anche gli
aspetti valoriali, comportamentali e psicologici.
Il simbolo del karate Wado Ryu
La concezione originaria
del karate era quella di una pratica per tutta la vita. Ciò si distingue in
modo importante dalla nostra concezione occidentale, focalizzata sui traguardi.
In Giappone, l’obiettivo è sempre il percorso, che ad esempio nelle arti
marziali è codificato dal grading delle cinture: si inizia dalla cintura
bianca, che dopo un certo numero di ore di pratica diventa gialla, poi
arancione, poi verde, poi marrone fino ad arrivare all’agognata cintura nera.
Quest’ultima può a noi apparire come un traguardo, un “essere arrivati”, ma non
è così. Infatti, la stessa cintura nera presenta dei gradi, o «dan», che sono
quelli di auto-perfezionamento. È un percorso continuo, in cui il valore e
l’eccellenza non sono rappresentati dal punto di partenza o di arrivo, ma
piuttosto da quanta strada si è percorsa.
Volendo dunque
utilizzare questa concezione di pratica per tutta la vita, nel libro ho
identificato quattro fasi, classificate a seconda dell’età anagrafica:
infanzia, gioventù, età adulta e senilità. Ognuna di esse può trarre vantaggi
diversi dalla pratica del karate, naturalmente a patto che si abbia un buon
maestro in base ai criteri indicati in precedenza.
Per quanto riguarda l’età infantile, i vantaggi sono l’esercizio della mobilità e il grado di socializzazione e relazione interpersonale, proprio perché il karate non è una disciplina individuale, bensì fondata sul concetto di comunità («ryu»), di gruppo («kai») e così via.
Nella seconda fase, l’età giovanile, il karate può apportare un importante contributo educativo, andando a lavorare sul comportamento e sul temperamento. Pensiamo ad esempio al fenomeno del bullismo: per risolverlo, sarebbe necessario cambiare i paradigmi di riferimento. Per me dobbiamo trasmettere il messaggio che il forte è colui che difende il debole, il vile quello che i deboli li attacca. Tutti principi tipici del Bushido. Di conseguenza, il maggiore valore aggiunto nell’età giovanile, oltre alla fisicità e a un metodo per canalizzare l’aggressività, sta proprio nel processo educativo che aiuta a cambiare i paradigmi della società.
Nell’età adulta questo concetto si traduce ancora di più in un approccio disciplinare che permette di lavorare su criteri operativi. Si tratta di modalità operative che vengono apprese in palestra, ma che serviranno anche per altri aspetti della vita: è un beneficio estensivo, quello della pratica da adulti.
Con l’ultimo gruppo,
quello della senilità, ritorna il discorso della socializzazione. Non dimentichiamo
che, specialmente nei grandi realtà urbane, la vecchiaia molte volte si consuma
in solitudine. Però c’è anche qualcosa di più, perché questa dovrebbe essere
anche l’età della riflessione, della saggezza. Le discipline marziali in fondo
sono un'occasione di approfondimento continuo.
Esiste poi un beneficio
trasversale a tutte e quattro le categorie, racchiuso nel concetto delle 4C che
illustro nel libro. Si tratta di elementi che possono accrescere la
professionalità o far crescere la persona e che partono in questo caso anche da una
pratica corretta del karate: crescita della conoscenza, comprensione,
comportamento e infine continuità. Imparare cose nuove (conoscenza),
naturalmente, è sempre importante, ma lo è altrettanto comprendere ciò che si
fa per poter dare un senso alle nostre azioni (comprensione), tanto nelle arti
marziali quanto in altri aspetti della vita. Ciò che abbiamo appreso e compreso
si traduce nelle nostre azioni (comportamento), che non vanno messe in atto una
sola volta, ma ripetute per il resto della vita (continuità). Dobbiamo capire
che, nel karate e nella vita, è tutto un divenire: non si arriva mai al
traguardo.
Come abbiamo detto,
nella cultura orientale il karate era considerato una pratica di lunga vita,
che si poteva dunque svolgere in modo continuativo. Nel mondo occidentale, con
la nostra visione sportiva dell’attività, immaginiamo che questa a un certo
punto debba finire.
Per me come per tante
altre persone il punto di partenza è stato una fascinazione, un interesse e una
curiosità che ho sempre avuto per le arti marziali. Sulla base di quanto
imparato (e cioè quanto ho raccontato finora), ho iniziato a elaborare i motivi
per avere una passione e per vederne i benefici. Rimanendo sul percorso e
continuano a fare pratica, a un certo punto tutti questi elementi si sono
sommati tra loro, aiutandomi a capire i benefici che nascono dall’applicazione
dei principi del karate anche ad altri aspetti della vita, e quanto questa
disciplina possa generare valore e utilità.
Quest'anno segna il 42°
da quando ho iniziato. Non sono in molti a continuare con la pratica così a
lungo, perché in molti la abbandonano per un motivo o l’altro. Io continuo ad
allenarmi tutti i giorni, quando è possibile e ovviamente con le modalità e la
fisicità di una persona della mia età, non certo con quelle di un
ventenne.
Come per ogni percorso ci possono essere alti e bassi, periodi di latenza, ma se troviamo un significato nelle nostre azioni, alla fine troviamo anche un motivo per continuare.
Ringraziamo ancora il Professor Sangalli per averci concesso quest'intervista, e vi ricordiamo che i diritti d'autore del libro sono devoluti all'ASD Trilogy per le attività sportive che svolge a favore dei disabili.